CURE E RIMEDI ATTRAVERSO I MILLENNI

La medicina egizia viene considerata, nel suo insieme, una delle prime forme di medicina codificate dall’uomo. Sviluppatasi in concomitanza con quella delle prime civiltà mesopotamiche, risulta profondamente legata alla cultura e al modo di vedere il mondo da parte degli egizi.

Essi credevano infatti che la vita dell’uomo fosse infinita: “Nulla si conclude, ma tutto scorre e si trasforma in qualcos’altro”.
Ogni cosa all’interno della società era fondata su questo assunto, e più in generale intorno all’idea dominante sui grandi temi: vita, morte e aldilà.

In particolare, la morte veniva slegata dalla sua componente naturale e fatta coincidere con eventi negativi che interrompevano, ma solo momentaneamente, il flusso vitale dell’individuo.
Il deperimento del corpo poteva dunque essere interrotto grazie ai rimedi di un mago o di un medico, capaci di scoprire la natura del male e porvi rimedio.

L’epoca dei faraoni si presenta così attraversata da un’infinità di curatori, medici, sacerdoti, che agivano in un contesto di profonda commistione tra scienza, religione e magia. Tutto ciò ha dato origine ad una tradizione medica senza eguali non solo per l’epoca, ma anche per moltissime civiltà che le sono succedute, tanto che gli stessi greci ne riconobbero il valore definendo quelle genti “il popolo dei sanissimi”.

IL POPOLO DEI SANISSIMI

«L'arte medica in Egitto è così suddivisa: ogni medico cura una e una sola malattia; e ci sono medici dappertutto: alcuni curano gli occhi, altri la testa, altri i denti, altri le affezioni del ventre, altri ancora le malattie oscure»
(Historie, II, 84)

Così si esprimeva Erodoto nelle Storie, elogiando l’imponente sistema sanitario messo in piedi sulle sponde del Nilo e segnalando, al tempo stesso, il primo caso di specializzazione medica nella storia.
Molti altri greci, scrittori e dotti di ogni tipo, avevano riportato la grandezza dei medici egizi fin dal VIII secolo a.C, tanto da mettere sullo stesso piano Asclepio, dio greco della medicina, ed Imhotep, Visir d’Egitto ai tempi del faraone Zoser. La fama di quell’uomo mortale, vissuto durante il III millennio a.C, rimase intatta nei secoli e anzi crebbe durante l’ascesa di Atene, tanto che iniziò a essere venerato come un dio e a muovere masse di fedeli verso i templi a lui dedicati a Menfi e sull’isola di Philae.
Il culto di Imhotep è stato qui preso come esempio, ma il credito smisurato di cui godevano gli egizi calamitò negli anni una moltitudine di bisognosi da ogni angolo del mondo allora conosciuto, dal Mediterraneo all’Asia Minore.

CHIRURGIA E MUMMIFICAZIONE

Ma cosa rendeva così speciali i medici egizi? Basandoci su tutti i resoconti in nostro possesso, risulta che questi fossero a conoscenza di oltre 320 malattie e 180 differenti farmaci.
Arteriosclerosi, vaiolo, peste, tubercolosi, polmonite, appendicite, lebbra, tutte venivano diagnosticate tramite un’attenta analisi dell’aspetto, dello stato di coscienza, udito, temperatura e polso. Il controllo delle urine e delle feci era l’ultimo step necessario al medico prima della diagnosi, che poteva essere favorevole, incerta o sfavorevole.
Negli ultimi due casi, l’addetto procedeva all’utilizzo di pratiche per lenire le sofferenze del malato, anche se il decesso era di certo la conseguenza più frequente.
Fu proprio intorno alla morte che gli egizi furono in grado di produrre una narrazione tra le più solide e popolari della storia: la mummificazione.
Come riportato, le genti del Nilo credevano nell’immortalità, vedendo nella morte solo una tappa intermedia dell’esistenza. Partendo da una credenza popolare (che trovava nell’aridità della sabbia un’ottima pratica di conservazione dei corpi), essi elaborarono una tecnica che presupponeva una profonda conoscenza anatomica, finalizzata a conservare i cadaveri intatti dentro i sarcofagi.
Questo lavoro era affidato agli imbalsamatori, medici e sacerdoti al tempo stesso, che in appositi laboratori preparavano il defunto alla nuova vita nell’oltretomba.
Il primo step consisteva nell’estrazione degli organi interni mediante un uncino di bronzo. Successivamente, il corpo veniva immerso per 40 giorni in acqua salata per favorire l’essicazione; poi, unto in oli e spezie e avvolto in bende di lino.
Posto infine nel sarcofago, gli organi interni erano sistemati in appositi vasi detti “canopi”, che costituivano solo una parte di un vasto arredo funebre a cui venivano aggiunti – a seconda del rango del defunto – gioielli e preziosi di ogni tipo.

Ad oggi sono in corso numerose ricerche orientate a chiarire l’approccio chirurgico degli antichi egizi, ma è chiaro che essi seppero portare a termine interventi molto complessi per l’epoca.
La loro scienza, influenzata e arricchita al tempo stesso dal culto del divino, appare oggi di straordinario interesse, specie per comprendere la storia di pratiche ancora di uso comune e i significati che vi attribuivano civiltà ormai del tutto scomparse.

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